Tainesi in Sudamerica

di Laura Tirelli

Nella storia degli Stati Uniti la “frontiera” ha avuto una grande importanza. Sulla “frontiera” i coloni americani hanno affrontato gli indiani e hanno messo a coltura immense estensioni di terre.
Anche gli italiani hanno avuto una loro “frontiera”: l’hanno avuta in Sudamerica, dove gli emigrati hanno spesso lavorato e lottato in condizioni analoghe a quelle dei pionieri, anche se un paragone troppo stretto tra le condizioni di vita dei coloni del Far West e di quelli italiani nelle terre vergini del Sudamerica non è possibile, perchè, in realtà, le condizioni degli italiani furono, in generale, molto più dure. Non c’erano nemmeno, come fu per i pionieri americani, miniere d’oro da scoprire; c’era soltanto la terra da strappare alla foresta vergine aprendosi faticosamente la strada tormentati da migliaia di zanzare e moscerini.

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Queste cartoline americane dei primi anni del secolo furono diffuse per convincere i contadini europei a trasferirsi oltre oceano facendo loro credere che lì i prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento raggiungevano enormi dimensioni (maiali e galline molto più grandi degli uomini).

Il processo migratorio in Sudamerica ebbe inizio nel secolo scorso e si svolse in varie fasi. Nei primi decenni dell’ottocento riguardò gruppi limitati di persone che vi si recavano soprattutto per ragioni d’affari. Questa fase è stata definita “ligure” per la prevalenza di genovesi, interessati al traffico commerciale.
A partire dal 1820 vi fu anche un’emigrazione politica. La partecipazione degli esuli alla vita civile del Sudamerica, in difesa dell’indipendenza e della libertà di quei popoli, è il dato che contraddistingue questo tipo di immigrazione. L’esempio più noto è quello della “legione italiana” di Garibaldi, ma ce ne furono anche altri. La seconda fase ebbe inizio col 1870 e durò fino al 1890. Essa è stata definita “nord-occidentale” per la prevalenza di emigranti provenienti dall’Italia del nord. Dal 1890 al 1920 vi fu invece una prevalenza di immigrati meridionali. Il flusso migratorio si diresse soprattutto in Brasile e in Argentina e in questi paesi gli italiani diedero presto prova delle loro capacità occupando in breve tempo le posizioni migliori: nel 1895 erano italiani l’80 per cento dei commercianti e il 70 per cento degli impiegati nella città di Buenos Aires. In mezzo secolo emigrarono in Argentina 2.174.300 italiani.

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Colpivano l’immaginazione dei poveri contadini, privi di cultura e informazioni, queste immagini di campi di grano dalle spighe così alte da dover essere afferrate con i lazzi e con pannocchie di dimensioni gigantesche

Anche diversi tainesi si sono recati un Sudamerica. Nel censimento del 1901 risultano assenti dal paese per lavoro all’estero 65 tainesi, di cui 14 in America. Nell’elenco degli emigrati è specificatamente segnalato che “si trova nell’America del Sud” Stefano Baranzelli, nato a Taino nel 1888, celibe, di religione cattolica, muratore e Ambrogio Giudici di Cheglio, nato nel 1878, celibe, di religione cattolica, contadino colono. Nei Registri parrocchiali sono poi indicati diversi tainesi nati in Sudamerica: come Margherita Malerba nata a Venado Tuerto, nella Diocesi di Santa Fè; in questa stessa località sono nate anche Ernestina, Luigina e Rosa Graglia, figlie di Virgilio e di Regina Pedrizzetti, emigrati in Argentina all’inizio del secolo così come i genitori di Gina Berrini, Giuseppe e Ambrosina Bielli. Nella Pampa Centrale, a Intendente Alvear, emigrarono Angelo Malerba e la moglie Carolina Ponti e anche Stefano Luisetti con la moglie Emilia Maffini.
Tra le motivazioni che spinsero milioni di persone a lasciare il paese natio per il Sudamerica vi furono certamente le precarie condizioni economiche e la grande miseria delle campagne, ma anche, come sostiene una certa storiografia, il grande desiderio di molti di tentare la fortuna, unito all’amore per il rischio e l’avventura e all’illusione che nei paesi d’oltreoceano la ricchezza fosse facilmente raggiungibile. Illusione che un certo tipo di propaganda diffondeva come dimostrano queste interessanti e non comuni cartoline dei primi anni del secolo raccolte da Alberto Sculatti.

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“Ecco come facciamo le cose a Minneapolis e a Detroit” dicono le scritte sulle cartoline che illustrano enormi meloni e un gigantesco ramo di more trascinato a fatica da un uomo. Immagini invitanti che facevano sognare coloro che dalla fatica quotidiana ricavano solo modesti frutti.

TAINESI IN SUDAMARICA

Antonio Costalonga e la moglie Ines Bielli vivono da 45 anni in Brasile. Per loro non è stata però una avventura da pionieri, non hanno dovuto aprirsi la strada nella foresta, hanno dovuto comunque lottare e faticare per dare a se stessi e ai propri figli una vita agiata.
Antonio si è trasferito a Mogi das Cruzes, cittadina nei pressi di San Paolo, per lavorare in una fabbrica di macchine da cucire negli anni ’50. Il Brasile aveva bisogno delle conoscenze tecniche degli europei e diversi furono gli italiani che negli anni del dopoguerra installarono fabbriche in questo paese. Antonio aveva in precedenza lavorato in SIAI e in una ditta di Oponne che produceva aghi. Abile disegnatore e progettista meccanico dalla fabbrica di macchine da cucire passò ad una di apparecchiature elettriche per la quale, ancora oggi già in pensione, presta il proprio lavoro di consulente.
Antonio e Ines hanno mantenuto stretti legami con Taino. Nonostante che la loro vita con figli e nipoti si svolga in Brasile, regolarmente ogni due o tre anni tornano a far visita a parenti e amici soggiornando nella casa che fu dei loro avi al Campel.