a cura della Redazione
Oltre ad allevare bimbi esposti, ospitandoli nella propria casa, diverse donne tainesi del secolo scorso fecero le balie presso famiglie cittadine benestanti. Il baliatico fu una vera e propria industria, regolamentata anche da norme di igiene e di comportamento. Questo tipo di lavoro era in genere ben retribuito, anche se di notevole sacrificio perchè comportava per una madre l’allontanamento dalla propria casa e dal proprio figlio, il quale veniva affidato ad altre donne della famiglia.
Tra le balie tainesi vi fu Emilia Berrini, chiamata “Bigiò”. Questo soprannome, che è una deformazione della parola francese “bijou” (gioiello), le fu dato perche Emilia, da bimba, aveva lunghi e folti riccioli d’oro.
Era nata a Taino nel 1866. Sposò Giuseppe Mobiglia ed ebbe quattro figli. Dopo la nascita del secondogenito, nel 1894 si recò a Firenze presso la famiglia Gilardini come balia del loro figlio Giulio. I Gilardini erano una ricca famiglia, proprietaria di una catena di negozi di abbigliamento a Firenze, Roma e Napoli. Possedevano una lussuosa villa a Stresa dove trascorrevano le vacanze estive. Fu probabilmente in questa circostanza che conobbero le sorelle Berrini. Infatti anche la sorella maggiore di Emilia, Clara Baira, aveva allattato la primogenita dei Gilardini.
Oltre al pagamento in denaro – il salario di Emilia era allora di 16 lire al mese, cifra ragguardevole se si pensa che un chilo di pane costava 5 centesimi – le veniva riservato un trattamento di lusso. Non era considerata una persona di servizio, anzi riceveva le massime attenzioni da tutto il personale e dalla famiglia Gilardini che accompagnava nei vari loro spostamenti, viaggiando sulla loro carrozza, un elegante “Landò”.
I suoi datori di lavoro le fornivano anche uno specifico guardaroba comprendente vari capi di abbigliamento eleganti e ben cuciti. Si racconta che la figlia maggiore di Emilia, Carolina, che all’epoca aveva tre anni, restasse soggiogata dai bellissimi abiti ornati di pizzo che la madre indossava al suo ritorno a casa tanto che disse, con profondo rispetto, “ghe rivà la me sciura”.