di Laura Tirelli
A Taino si ebbero insediamenti rurali fin dai tempi dei romani, ma la cascina vera nasce nel 1700.
La cascina tainese e lombarda in genere è stata un condensato di storia, di vita, di cultura, espressione di un complesso fenomeno socio-economico-produttivo che non ha uguale in nessuna parte del mondo. Nel tempo si è creato un sistema produttivo chiuso come azienda, come gruppo sociale, come complesso abitativo con strutture, stalle, e altri fabbricati, granai, fienili, porcili, porticati talmente proporzionati alla superficie aziendale e all’allevamento da vincolare ogni cascina alla sua individualità. (un ecosistema logico che non usava violenza sul territorio, la cascina era un sistema produttivo compatibile con il territorio basato su un perfetto equilibrio tra natura e attività umana, un sistema produttivo che aveva nella catena terra-prato-bestiame la sua fertilità.
Chi abitava le cascine? Coloro che si dedicano a coltivazione terra sono detti agricoltori o contadini, (fascino nell’arte) termini generici. Si fa presto a dire contadino. Ma di che contadino si trattava?
cerchiamo di capire quale fosse la realtà sociale ed economica di epoche nelle quali l’agricoltura era l’attività principale.Che tipo di rapporto aveva con la terra? Era un proprietario, un affittuario, un bracciante? Se la terra che coltivava non era sua quanto e come pagava per poterla utilizzare? Pagava in natura o denaro? Una quota fissa o una percentuale variabile del raccolto? In quale tipo di famiglia viveva?
I termini che più frequentemente si trovano nelle fonti storiche, prendiamo ad esempio lo stato delle anime della parrocchia di Taino del secolo XVI (due stati anime uno del 1573 con 26 nuclei famigliari e totale popolazione 182, persone per famiglia 7; uno del 1637 con 71 nuclei famigliari, popolazione 365, persone per famiglia 5) sono: “massaro”, “pigionante”, “brazante e fittavolo.
Esempio:
Giulio Mera detto Cattò, massaro del signor Giulio Cesare Pozzo d’Arona
Antonio Paieta, massaro dell’eccellentissimo signor conte Giovanni Serbelloni
Damiano Scutri fattore del signor conte Giovanni Serbelloni
Giovan Iaccomo Biel, pisonal in casa dell’eccellentissimo conte
Giovanni Berrino pisonal del signor conte
Antonio Pecchio pisonal del signor conte
Domenico della Jaccoma abitante in la cassina nova dell’eccellentissimo signor conte Giovanni serbelloni
Pietro Mira massaro
Ludovico Binda brazante
Stato delle anime di Cheglio:
Francesco Copione pisonà del signor Carlo Avogadro
Hieronimo Margnino pisonal del detto signor Avogadro
Balzaro di Balzariti massaro del sudetto signor Avogadro
Antonio de Biaso massaro del signor Avogadro
Giovan Jaccomo Cardana massaro del signor Gaspero da Luino
Per il termine massè (massaro) il Cherubini nel suo vocabolario italiano/milanese ci dà questa definizione: “è quel mezzadro o mezzaiolo che lavora un podere di qualche estensione, per lo più dalle 100 alle 200 pertiche e ciò con l’aratro”. Non è una definizione del tutto esatta, almeno a partire dal 1500 il massaro non era un mezzadro, cioè un coltivatore che divideva il raccolto a metà con il proprietario (i contratti di mezzadria verranno dopo), ma un affittuario che pagava un affitto fisso, in genere in natura: grano, mais, uva, gelso. E’ esatto però che il massaro fosse un contadino relativamente agiato, che lavorava un podere di una certa estensione e che per farlo disponesse di un aratro e degli animali per trainarlo.
Per contro il pisonà “lavora terreno a vanga e a braccia, non ad aratro e buoi, e paga fitto in derrate di un luogo che raramente passa la settantina di pertiche”. Dunque un contadino più povero, senza buoi e con poca terra a disposizione. Queste diversità economiche e sociali si riflettono anche nella composizione dei rispettivi nuclei familiari.
Il Massaro con molta terra da lavorare aveva bisogno di braccia. Le famiglie dei massari erano dunque sempre molto numerose e quasi sempre composte da più nuclei coniugali e più generazioni. Ad esempio un padre con due o più figli a loro volta sposati. Il padre era detto il regiù ed era il capo di tutto il gruppo.
Sempre nello stato delle anime di Taino del 1637 “ con Antonio Paletta, massaro del conte Serbelloni, abitava la moglie Maddalena, Cattarina figliola, Giovan Jacomo figliolo, Malgarita figliola, Antonio Paieta fratello, Lugretia sua moglie, Barbara figliola, Angela figliola, Giovan Pietro fratello, Carlo fratello, Domenico fratello, Malgareta madregna.”
I pigionanti invece vivevano in famiglie coniugali formate da genitori e figli ai quali talvolta si aggiungeva un altro parente rimasto solo, una nonna, una zia un cugino orfano:
“Bartolomeo Berrino pisonà, Cattarina moglie, Anna cugina, doi figlioli piccoli”
Famiglie piccole e fragili come era fragile la loro situazione economica.
Il brazante era un contadino senza terra, coloro che non avevano neppure un minimo di pezzo di terra in affitto e che quindi dovevano vendere il proprio lavoro a giornata. A Taino erano pochi anche perché agricoltura di tipo famigliare, non su grandi estensioni e poi emigrazione. (24 emigrati nel 1860)
Vi era poi una altra differenza tra massari e pigionanti, una differenza che riguarda proprio il significato del termine cascina. I massari infatti abitavano per lo più in case isolate, lontane dagli agglomerati dei paesi, nei pressi dei campi. Case e/o gruppi di poche case dette appunto “cassine” o anche “casa masserizia”. La cassina aveva un unico proprietario, ma era abitata da più famiglie, indicava un tipo di abitato, non un’azienda.
Un’altra figura è il fittavolo.( le grandi proprietà affittate ai fittavoli).
Il fittavolo è giuridicamente un affittuario come il massaro, ma la sua consistenza economica e la sua importanza sociale sono ben diverse. Il fittavolo infatti non solo è ben più ricco, ma, quel che più conta, non produce per il consumo diretto della sua famiglia ma per vendere i prodotti sul mercato. E naturalmente non coltiva la terra direttamente, con le sue mani, ma attraverso l’impiego di salariati a giornata o stagionali.
Nel corso dei secoli questa figura si evolve.
Nel 1600 i fittavoli erano poco più che massari, agiati, ma pur sempre dei contadini (esempio: nel 1637 la cascina Monzeglio era abitata dalle famiglie di Giulio Mira detto Cattò, fittavolo di Giulio Cesare Pozzo di Arona e da quella di Giovan Battista Mira, massaro del conte Giovanni Serbelloni
Nel 1700 e ancor più nell’800 il fittavolo è invece un vero e proprio imprenditore agricolo che impiega anche personale specializzato indispensabili per il funzionamento di un’economia agraria evoluta fondata soprattutto sull’allevamento e la produzione lattiero-casearia. Dalla mezzadria si passa all’affitto per effetto di almeno due motivazioni: l’imposizione delle pesanti imposte fondiarie che l’Impero Austro-Ungarico aveva decretato dopo l’istituzione del catasto teresiano e i vantaggi che si potevano perseguire nell’ambiente modificato dalla presenza di due culture dominanti: prato per fieno ad animali e cereali. In questo contesto il termine cascina assume il suo significato più pieno e specifico. Ovvero quello di un insieme di edifici, abitazioni, stalle, fienili, granai, casere raccolti intorno ad una grande corte e che costituisce il centro di una azienda diretta dal fittavolo e di vita comunitaria.
Nelle rilevazioni statistiche dopo unità d’Italia ( a Taino nel 1862) risulta che la natura più ordinaria dei contratti in genere di agricoltura sono gli affitti dei proprietari con massai, pagando questi ultimi una minima parte in denaro, la metà dei bozzoli, metà del vino, la maggior parte del frumento e della segale, tenendo per il vitto il formentone ed altri cereali.
I grandi proprietari di Taino furono i Serbelloni, nobili milanesi.
– la maggioranza del territorio tainese passa nel 1500 da proprieta’ arcivescovile ai Serbelloni
– Il feudo di Taino fu acquisito al patrimonio della famiglia Serbelloni da Giovan Battista, nato nel 1540, figlio naturale, poi legittimato, del Gran Gabrio e di Caterina Bellingeri, donna di umili origini, ma di notevole bellezza. Nel 1567 Giovan Battista sposò Ottavia Balbo che ereditò dal padre, passandoli poi al marito, i beni della Pieve di Angera che Fabrizio Balbo aveva preso in enfiteusi dalla Mensa Arcivescovile nel 1542.(3000 pertiche) Fu il Serbelloni che, proseguendo l’opera già iniziata dal suocero, sistemò quello che era un antico e diroccato Castello facendovi costruire l’alloggio per i massari, la stalla, i fienili e la casa da nobile. Ampliate proprietà dal 1574 al 1634 si conoscono 113 atti notarili di acquisto
I grandi proprietari di Cheglio furono invece famiglia Avogadro di Angera nel 1500 e in maggioranza enti e le congregazioni religiose (41% del territorio in catasto teresiano del 1759), principalmente il monastero delle monache di Santa Teresa di Angera e quello delle madri della beata vergine della Visitazione di Arona, (circa 700 pertiche, rappresentarono “la proprietà” per oltre due secoli). Ordine istituito da S.Francesco di Sales e monasteri fondati in Francia e Piemonte da madre Giovanna Francesca Fremiot de Contail, vestito nero con panno nero in testa pendente sulle spalle, volto circondato da bianco lino che scendeva sul petto.
In seguito alla riorganizzazione degli ordini monastici compiuta prima dal governo austriaco e poi quello napoleonico alla fine del 1700, molti conventi vennero soppressi e alienate le proprietà ecclesiastiche che per quanto riguarda Cheglio vennero acquisite da due famiglie angeresi : i Castiglioni e i i Paletta. La famiglia Paletta in particolare ebbe ragguardevole estensione. Marco Paletta lasciò alla sua morte nel 1892 una proprietà corrispondente a circa il 50% di tutti i terreni di Cheglio e la vedova Francesca Pestalozza aumentò il patrimonio acquisendo nel 1896 la masseria di San Damiano. La nipote Giulia Bordini Paletta, ultima discendente, ebbe in eredità nel 1907 terreni per circa 90 ettari.
Si occupavano della proprietà degli agenti (Antonio Boniforti per Marco Serbelloni, Serafino Colombo per Giuseppe Crivelli Serbelloni) o fittavoli
Nel 1880 tutto latifondo dei Serbelloni dato in affitto per 12 anni a Pietro Morardet di Milano.
Inizio 1900 Serbelloni alienarono tutti loro beni acquistati da una società formata dai signori Luzzani, Comi, Carlo Berrini, Quaglia.
Motivo: non si conosce di certo, si può supporre conseguenze grave crisi agricola degli anni ottanta del XIX secolo dovuta al verificarsi contemporaneo di numerosi eventi che avevano portato ad un drastico calo dei prezzi e di conseguenza di perdita del reddito delle aziende agricole di ogni dimensione con la conseguente disoccupazione e crescente emigrazione verso l’estero delle forze lavoro. Tale crisi si può far risalire alla concorrenza dei cereali provenienti da oltre oceano favoriti dal ridotto costo del trasporto dopo l’introduzione delle navi a vapore. Altri fattori furono la vendita dei patrimoni degli enti religiosi, il crollo degli investimenti e il formarsi del movimento bracciantile.
Dopo prima guerra mondiale i reduci fecero richiesta di nuovi contratti (rivendicazioni contadine) Famiglia Paletta per non accettare rivendicazione vendette tutte le sue proprietà a partire dagli anni venti del Novecento.
LE PRINCIPALI CASCINE DI TAINO
– Quali erano gli elementi essenziali della cascina che costituirono il tessuto vivo e produttivo e crearono l’atmosfera della vita agricola?
– Struttura a quadrilatero chiuso o aperto in un lato, gli elementi costitutivi sono riconducibili alle abitazioni dei dipendenti e del fittabile, ai locali per il ricovero degli animali e agli edifici rustici per la lavorazione dei prodotti e per altri usi.
Ogni famiglia disponeva di un locale a pianoterra con il camino e il pavimento a mattonelle o terra battuta e del locale corrispondente al piano superiore a cui si accedeva per mezzo di una scala con i primi gradini in mattoni o in pietra e i successivi in legno. In alcune cascine la scala interna veniva sostituita dalla distribuzione a ballatoio simile a quella delle abitazioni dette a ringhiera. Al centro della corte vi era un pozzo comune a tutte le famiglie. I servizi erano all’esterno dove si trovava il pozzo nero e il forno per il pane. La stalla era elemento importante, poteva essere lunga dai 5 ai 12 casseri, chiusi al piano terreno e aperto nel sovrastante fienile.
Al centro della corte dominava l’aia in cemento, punto di riferimento della cascina, strumento di lavoro necessario per l’essiccazione dei cereali, ma anche centro comune e luogo di vita sociale.
Con la storia degli edifici rurali si può delineare la vita della comunità della cascina, la divisione tecnica del lavoro poiché l’organizzazione sociale della cascina era funzionale alla produzione agricola. La vita della cascina come si può capire era condizionata dal faticoso lavoro, sia pure con varia intensità nelle diverse stagioni, ma sempre temperato dai buoni rapporti sociali fra le molte famiglie che vivevano nella corte costituenti una solidale comunità. Questa comunità si radunava nelle ore serali d’inverno nella stalla (fole) o sull’aia al tempo dei raccolti dove si commentava la riuscita delle coltivazioni o si procedeva alla divisione dei prodotti, mentre momenti particolari erano le ricorrenze, le sagre, il rito della macellazione del suino, il giorno del Patrono, S.Stevan, il giorno di Sant’Antonio protettore degli animali o la recita del Rosario.
ELENCO CASCINE
Dopo il saccheggio delle truppe francesi (Battaglia di Tornavento- 1636) l’inchiesta dei magistrati sui danni subiti citano alcune cascine: “la cassina detta dei Monsei, proprietà conte Serbelloni, abitata da Battista de Mira e la cassina appellata la Cassina Nova, abitata da Meneghino e fratelli Peri
In un atto di rilievo dei beni di proprietà del conte Giuseppe Serbelloni datato 1 maggio 1847 risulta l’elenco delle cascine date in affitto dalla nobile famiglia ai signori ing. Giacomo Cattaneo e Felice Franzi (cascina Matilde ai Ronchi, cascina Amelia, caseggiato detto lo stallazzo, corte dei campari in contrada della Torre, cascina detta ca’ nova, caseggiato del prato del bosco, cascina Monzeglio, cascina marianna, cascina del campello, caseggiato detto lo stallo del Mobiglia, caseggiato detto il bisoccio, cascine rossere, caseggiato detto dei Martorino)
– Cascine piu’ grandi: matilde ai ronchi, ca’nova, cascina al roncaccio (boscoforte), pra’ del bosco, cascina di monzeglio, san damiano.
CASCINA MATILDE
Assai Antica, settecentesca, segnalata nei beni Serbelloni del 1847, è descritta come formata da: stanze ad uso bigattaia, cucina con porta che mette al sottoscala, stalle con finestre munite di serramenti, sito di giorno coperto da ala di tetto fornito degli opportuni legnami.
Coloni nel 1880: Giovanella Giovanni e Marco
Nel 1906 fu acquistata da ing. Carlo Berrini.
Dopo la sua morte fu la moglie Annunziata Cattaneo, con l’aiuto del fattore Alfredo Bielli a portare avanti i lavori della cascina. I discendenti di carlo Berrini sono tuttora i proprietari. Negli anni trenta del Novecento vi fu l’emigrazione dal Veneto: nella cascina lavorarono a mezzadria la famiglia Gumier e Giraldo (nel 1938, 14 persone) poi i Vavassori, provenienti da Soncino (Cremona) una famiglia patriarcale, a capo della quale vi era la nonna Elisabetta, vedova con 14 figli, la regiora. Poi vennero i Perdoncin, Domenico e Stella con 12 figli, da ultimo i Meneghini fino al 1990.
CASCINA CA’ NOVA
Distante da centro paese, primo riferimento nei documenti storici che ne attesta esistenza: relazione subita dagli abitanti di Taino nel 1636 dopo battaglia di Tornavento saccheggio. Da relazione si apprende che era di proprietà del conte Serbelloni. Da elenco danni subiti si ricava descrizione edificio: già nel 1636 era una costruzione ampia a più piani con una scala nel mezzo per accedere alle stanze superiori. C’era il solaio e la stalla con annessi due porticati. Incendio e saccheggio provocarono gravi danni. Il magistrato incaricato del sopralluogo riferisce che vide:
“stanze abbruggiade altro non vi è rimasto che le mura vedendosi in terra li coppi sminuzzati et alcuni travi in carbone” e precisa che “qual cassina veniva abitata da Meneghino e fratelli Peri massari” .
La cascina fu ricostruita non si sa quando e come. Altre notizie circa gli abitanti non sono documentate fino al 1901. Nel censimento di quell’anno risulta che risiedevano quattro famiglie, tutte di nome Bielli (famiglia di Marco Bielli composta da 7 membri, di Bielli Carlo anch’essa di 7 persone, di Bielli Carlo fu Domenico con 10 membri e la famiglia di Bielli Gerolamo con 11.
La cascina è citata nell’elenco proprietà Serbelloni del 1847, quando vendettero acquistata da tre famiglie Bielli che lì risiedevano come affittuari e loro discendenti vissero fino alla seconda metà degli anni Sessanta del Novecento.
CASCINA AL RONCACCIO
Originariamente chiamata Cascina Vecchia, il nome Roncaccio gli è stato dato successivamente in riferimento sua ubicazione (col termine ronco/roncaccio si intendeva una zona fertile, generalmente coltivata a vite, in posizione sopraelevata e favorevole)
Proprietà Serbelloni fu acquistata dall’ing. Carlo Berrini nel 1906, successivamente passò al marchese Corti che nel 1966 vendette ad Aldo Borletti. Nel 1980 fu venduta dalla vedova Borletti ad architetti milanesi che la trasformarono in una residenza moderna.
Alla fine 1800 vi abitavano i Ghiringhelli, originari di Capronno, poi i Mobiglia (giovin). Il capofamiglia Marchin era il sateroo (seppellitore) del paese, poi famiglia Boca (1922) proveniente da Carpignano, paese originario del medico condotto Innocenzo Bonenti che dal Piemonte fece venire alcune famiglie contadine a lavorare le sue terre. I Boca si trasferirono poi alla cascina alla Piana dove il dott. Bonenti aveva creato, unica nella nostra zona, una risaia.
Poi i Ferla e nel 1928 la famiglia Fantin originaria di Marostica nel Veneto (contratto a mezzadria). Nel 1941 subentrarono i Valvassori, originari della provincia di Cremona come anche i Signorelli, ultima famiglia contadina al Roncaccio. Il Frutteto fu sostituito dalla coltivazione di azalee nel 1976.
Si ha notizia che la cascina bruciò nel 1912 e venne ricostruita secondo la struttura tipica della casa colonica tainese consistente in un lungo corpo rettangolare a due piani (tre locali al piano alto con attigua deposito per il fieno e altre tre al piano terra con annessa cantina e stalla)
Scritta sul fronte: Dalla terra ogni bene, nei campi la vita.
CASCINA MARINA AL PRA’ DEL BOSCO
Proprietà Serbelloni, acquistata fine 1800 da Carlo Ghiringhelli da Capronno, famiglia proveniente da Caronno Varesino che fino al 1940 si chiamava Caronno Ghiringhello (Caronno-Capronno) “ghiringhello: rudimentale strumento sonoro usato da contadini nelle sagre”. Dal ceppo originario quattro gruppi: quello del “Biseuc” al Campaccio – estinto, il ceppo ancora oggi detto di Capronno e quello più numeroso del Pra’del bosco (nel catastino del 1840 vi abitava una sola famiglia Ghiringhelli, nel 1870 due, nel censimento del 1901 risultano 9 famiglie Ghiringhelli. Nella seconda metà del 1800 vivevano tre famiglie Ghiringhelli: quella di Gaetano, di Carlo e di Marco. Gaetano ebbe 9 figli, lasciò alla sua morte nel 1916 14 pertiche a testa a ciascun figlio.
Dopo prima guerra mondiale, prima emigrazione a Taino dalla Valtellina (i Valtulit). Prima dei veneti. Battista Biavaschi, valtellinese, sposò Maria Ghiringhelli.
Battista fu postino e uno dei fondatori della Latteria Sociale (nata nel 1931, casa Margheri).
CASCINA DI MONZEGLIO
Già citata nel 1636 e nel 1847 (proprietà Serbelloni). La famiglia che maggiormente si identifica con questa località è quella dei Mira d’Ercole suddivisi in due rami: “Capeta” e “Danet”. Difficile stabilire la data di nascita delle due ramificazioni, si sa che alla fine dell’Ottocento Giovanni Mira d’Ercole, detto Ruscil, del ramo dei Capèta costruì la cascina “al Mot”. Caratteristica: un forte spirito di solidarietà ha unito gli abitanti. Non vi erano recinti, né siepi o steccati, tutti insieme fienagione, vendemmia ecc. Località delimitata da due cappellette dedicate alla madonna: una costruita più di 100 anni fa da Carlo Mira d’Ercole (Carlin da la Vigna) tra via Bologna e via Torino. L’altra all’inizio strada che sale in cima a Monzeglio, costruita negli anni Trenta del Novecento da Giovanni Mira d’Ercole detto Ruscil (fuga in Egitto).
CASCINA DI SAN DAMIANO A CHEGLIO
Appartenne per oltre 250 anni , fino alla fine del 1600, agli Avogadro di Angera. Dai documenti storici risulta che nel 1579 i due locali di abitazione annessi all’Oratorio erano utilizzati da Tommaso Cerutti. Nel 1637 affittuario era Batta Badano. Passò poi per eredità al canonico Giuseppe Aycardi e ai suoi successori fino al 1849, anno in cui divenne proprietà della famiglia Castiglioni e da questi ceduta alla vedova Paletta la cui nipote vendette a sua volta la masseria, nel 1921, ai coniugi tainesi Stefano Forni (Pagnac) e Giovannina Berrini. Nel 1932 Roberto Rodi di Lesa acquistò la cascina e le terre di San Damiano. I suoi discendenti vi abitano ancora. Prima dei Rodi vissero e lavorarono a San Damiano le famiglie Carraio, Marin e Mantoan.
Importante è un piccolo Oratorio del IX-X secolo, nella cui abside vi sono resti di affreschi di epoca carolingia, nell’aula dietro all’altare un affresco quattrocentesco.