di Laura Tirelli
La sommossa milanese del 20 aprile 1814, ispirata e guidata da Federico Confalonieri e da altri esponenti del patriziato lombardo ostili al regime napoleonico, segnò la definitiva caduta del Regno Italico. Il 27 aprile il vicerè Eugenio Beauharnais lasciò Milano e il giorno successivo fecero il loro ingresso in città le truppe imperiali austriache. Ebbe inizio così la “restaurazione” con l’annessione della Lombardia all’impero asburgico e con la costituzione il 7 aprile 1815 del Regno Lombardo-Veneto.
Il nuovo regno comprese il vecchio ducato di Milano, Mantova, la Valtellina e poi i possedimenti in terraferma della cessata Repubblica di Venezia che, a dispettto del conclamato principio di legittimità stabilito dal congresso di Vienna, non venne ricostituita. La Lombardia attuale nasce così, da un fortunoso assemblaggio di terre milanesi e svizzere, venete e gonzaghesche. Ma nel 1815 si pensava soprattutto alla pace, si sperava in un periodo di assestamento, di prosecuzione delle riforme teresiane e giuseppine e anche napoleoniche, ma decantate dagli eccessi dispotici e dai parossismi bellici. I Lombardi immaginavano una “unione personale” con la vecchia Austria, due stati con un solo sovrano, ma con piena padronanza del loro destino. La disillusione sopraggiunse inesorabile. L’Austria della restaurazione non era più quella di Maria Teresa “materna e benigna”, si trovava forzata nel ruolo di guardiano dell’ordine e della conservazione europea. I lombardi, esclusi da una amministrazione ridotta ad esecutrice di direttive elaborate oltrealpe, discriminati nelle sfere più alte del potere, penalizzati sul terreno economico e fiscale, schiacciati da una ottusa occupazione militare, ben presto guardarono oltre il Ticino alla ricerca di forze capaci di contrastare un dominio avverso ai loro interessi. La società lombarda vide così in quegl’anni una crescita di consapevolezza, un’assunzione di responsabilità senza precedenti. Fu questa la più alta stagione vissuta da Milano e dalle città sorelle, le cui energie si propagarono fino ai borghi più piccoli e isolati.
Anche Taino risentì in qualche modo della vitalità dell’epoca: mentre l’era napoleonica era trascorsa senza grandi traumi, o avvenimenti significativi, negli anni della restaurazione il paese seppe dotarsi di nuovi servizi, come la condotta medica, realizzati, dopo un tormentato dibattito in seno al consiglio comunale, a dimostrazione della volontà di migliorare la condizione della popolazione e avviarsi sulla strada della modernizzazione.
Nel 1821 Taino aveva 592 abitanti, in maggioranza contadini affittuari o mezzadri del conte Serbelloni che era il maggior “estimato”, cioè possessore fondiario iscritto nei registri catastali del Comune e come tale fu uno dei due “Anziani” eletto insieme ad un altro importante proprietario terriero, tale Aycardo Castiglioni di Angera, nel primo “Convocato generale degli estimati” (22 ottobre 1815) ripristinato al ritorno degli austriaci al posto del consiglio comunale napoleonico.
Questa assemblea comprendeva 25 persone tra le più ricche e notabili del Comune e si riuniva due volte all’anno per approvare i bilanci ed eleggere ogni tre anni una Deputazione destinata a sostenere l’azienda comunale. Nel 1815 fu confermato sindaco Antonio Boniforti, agente di casa Serbelloni.
Tra i fatti di maggior rilevanza occorsi nell’epoca della restaurazione è innanzitutto da segnalare l’unione tra i comuni di Cheglio e Taino, proposta nella seduta del Convocato generale del 31 ottobre 1821 e che avvenne nel 1822. Questa unione fu di vantaggio per entrambe le due comunità di fatto già unite dalla vicinanza e dai legami tra le famiglie. Successivamente nel 1824 la Delegazione Provinciale propose di concentrare con Taino anche Lisanza e Lentate, ma questa volta il Convocato rispose negativamente perchè Gheglio e Taino, è detto nel verbale, preferivano “stare da soli”
L’altro fatto significativo fu l’istituzione della condotta medico chirurgica per l’assistenza dei poveri. La maggioranza della popolazione viveva in precarie condizioni di salute. Molto alta era la mortalità infantile: quasi il 60% dei nati moriva entro i primi quattro anni di vita e le cause principali erano, nell’ordine, vermi e febbre verminosa, bruttura, consunzione, enterite. La consunzione era una causa di morte anche per gli adulti, i quali erano affetti da malattie come la pellagra (carenza vitaminica), che si manifestava soprattutto negli anni di carestia come avvenne nel 1815-16 e nel 1847-48 e il tifo, causato spesso da cattive condizioni igieniche. Le abitazioni non disponevano di servizi igienici, si condividevano gli stessi spazi con gli animali domestici, anzi, nei locali migliori, più caldi e aereggiati si allevavano i bachi da seta. Tutto questo contrastava con l’igiene e un compito dei medici fu proprio quello di educare alle pratiche di pulizia.
Un’altra malattia che colpiva i tainesi e dalla quale era difficile guarire era la tubercolosi. Bisogna però dire che, tenendo presenti le realtà sociali dominanti nel resto d’Italia, a Taino la sanità pubblica presentava una situazione relativamente privilegiata che migliorò con la creazione della condotta medica istituita nel 1825.
Primo medico fu il dott. Ferdinando Fraschina, “già salariato dalla beneficienza della Casa Serbelloni per i propri massari e pigionanti e già delegato per la vaccinazione nel Comune” al quale fu riconosciuto un salario annuo di £.138 a carico della Cassa comunale. Grazie alle vaccinazioni su larga scala diminuì la diffusione del vaiolo e anche l’incidenza di un male tradizionale come il rachitismo. Il colera, approdato in Italia nel 1835, non fece nessuna vittima tainese nella sua prima aggressione. Contenuta fu anche la mortalità per “il pestifero vomito orientale” nella successiva ondata epidemica del 1854 che registrò a Taino solo tre morti, questo grazie anche alla discreta efficienza delle strutture sanitarie e alle misure prese dalle autorità. Ai tainesi venne l’obbligo di pulire i cortili, di bruciare i pagliericci infetti ecc. Per quanto riguarda l’atteggiamento della mentalità popolare di fronte a questa malattia, allora misteriosa, è probabile che in molti credessero che a diffondere il male fossero degli occulti avvelenatori con il contenuto di strane ampolline, però non si verificarono a Taino e neppure a Milano e negli altri centri della Lombardia i tumulti di massa e le tragiche uccisioni di presunti “untori” che accompagnarono l’avanzata del colera in Sicilia o in Spagna.
Un tumulto per altro genere si verificò invece a Taino nel 1847 e il motivo fu la difficoltà di approvvigionarsi di grano, fondamentale per l’alimentazione della popolazione. Agli inizi del 1847 i prezzi delle granaglie subirono un forte rialzo a causa della scarsità di produzione. Questo fatto esasperò la popolazione praticamente ridotta alla fame. A Sesto Calende, posto di dogana, si raccoglievano nei magazzini le granaglie da inviare via lago alla vicina Svizzera. Lì si recarono nel febbraio 1847 alcuni capi famiglia tainesi alla ricerca dell’indispensabile cereale, ma i magazzini erano vuoti. Si sparse la voce che tutto il grano disponibile veniva inviato a Vienna. Questa notizia, vera o falsa che fosse, provocò un grande malcontento e agitazione in tutto il circondario. La popolazione si riunì in casa del parroco per studiare il da farsi. Alcuni, più focosi e istigati da tale Seppin Catò, visti dei battelli carichi di grano che attraversavano il lago, si recarono a Ranco con pale e forconi e assalirono i barconi appropriandosi illecitamente del contenuto. Immediata fu la reazione della gendarmeria austriaca che pretese la restituzione del grano. I tainesi coinvolti, assistiti dal parroco don Brioschi, anche se a malincuore, riconsegnarono tutto il maltolto. Don Brioschi venne richiamato dalle autorità ad esortare la popolazione al rispetto dell’ordine.
Il ruolo dei parroci fu sempre molto importante in paese perchè erano le figure di riferimento e si assumevano diversi compiti, come don Gaetano Sala, parroco dal 1821 al 1840, che fu anche maestro della scuola elementare. Negli archivi comunali è conservata una sua lettera alla Deputazione comunale nella quale lamenta la gravosità dell’incarico assegnatoli e protesta per il diminuito onorario di Maestro.
Nel settembre 1823 gli verrà concesso un aumento di salario da £.175 a £.200, cifra che sarà nel 1827 portata a £.300 “in vista dell’abilità ed attività del detto Sig.Maestro, ed a condizione che egli debba riportare la superiore abilitazione”. Frequentavano la scuola i fanciulli di età compresa tra i sei e i dodici anni. Nel 1824 erano affidati alle cure di don Sala 48 maschi e 37 femmine i quali, essendo “figli di agricoltori o addetti al pascolo de’bestiami possono frequentare la scuola, senza recare danno alle famiglie, solo pochi mesi all’anno in inverno e nella cattiva stagione” (dal verbale del Convocato del 29 settembre 1824), perchè i bambini allora, fin dalla più giovane età, aiutavano i genitori nei lavori dei campi. All’epoca di don Sala la diocesi di Milano era retta dall’arcivescovo conte Carlo Gaetano di Gaisruck, di nazionalità tedesca, legato alla corona e gradito al governo austriaco che seppe comunque guadagnarsi un ampio favore con la sua opera di sollecita riorganizzazione pastorale, soprattutto per quanto concerneva i seminari, il governo del vasto territorio della diocesi milanese e la disciplina del clero. Nell’archivio parrocchiale di Taino sono conservati numerosi suoi proclami rivolti al clero che sollecitava ad una continua ed attenta azione pastorale. Il cardinale di Gainsruck dimostrò anche un atteggiamento non troppo ossequiente al governo, giunse a un’umana simpatia per i liberali e alla richiesta di clemenza per Federico Confalonieri, ma i limiti della sua azione furono segnati dalla concezione di “Chiesa di Stato”, fondata sul controllo politico di ogni atto ecclesiastico, sistema che non offrì, nonostante gli sforzi pastorali, nessuna concreta prospettiva di rinnovamento alla Chiesa milanese. Don Gaetano Sala fu sempre molto ligio alla direttive superiori e, dopo molte insistenze, potè lasciare il gravoso compito dell’insegnamento e dedicarsi unicamente alla cura delle anime.
Nel 1841 venne nominato un nuovo Maestro Comunale per la scuola elementare maschile nella persona di Carlo Besozzi di Lisanza che mantenne l’incarico per oltre 40 anni e fu anche segretario comunale e sindaco. Figura eminente questo Carlo Besozzi per l’impegno a favore del Comune e per avere dato origine ad una famiglia di insegnanti. Maestre a Taino furono successivamente la nipote Carolina Besozzi e la pronipote Piera Bielli.
Per comprendere i miglioramenti dell’epoca della restaurazione a Taino, che possono apparire come piccola cosa rispetto a quelli di maggior portata introdotti in altre località, va tenuto presente che il paese ebbe sempre molte difficoltà economiche e che i mezzi a disposizione furono sempre molto pochi. Nonostante ciò, notevole fu lo sforzo delle Deputazioni Comunali di dotare il paese di alcuni elementari servizi anche se gli “estimati” pare non fossero particolarmenti aperti al progresso: nel verbale del Convocato generale del 6 settembre 1846 dichiarano “non essere in alcun modo disposti a sostenere la spesa per l’acquisto di parafulmini, non essendo persuasi della utilità di simili provvedimenti”.
I tainesi erano scettici riguardo alle novità, ma anche molto prudenti nell’utilizzo del denaro pubblico.