Dalla guerra di Libia al primo conflitto mondiale
di Laura Tirelli
Con l’approssimarsi della fine del millennio intendiamo, come già detto, riassumere la storia di Taino e della sua gente nel corso di questo secolo. Nel primo numero della “Voce del Dumin” di quest’anno abbiamo preso in esame alcuni aspetti della condizione economica, sociale e politica di Taino nei primi anni del 1900. Proseguiamo ora esaminando il vissuto dei giovani tainesi verso i due eventi bellici che sicuramente hanno lasciato un segno e condizionato l’esistenza di tutto il paese nel primo ventennio del secolo, vale a dire la guerra di Libia (1911/12) e il primo conflitto mondiale (1915/18).
Possiamo ricostruire queste esperienze analizzando alcune lettere che i soldati tainesi inviarono dal fronte alle loro famiglie e le notizie a riguardo riportate sul periodico locale “Il Resegone”. Le lettere, in particolare, sono una interessante documentazione storica perchè è dalle parole stesse dei protagonisti che veniamo a conoscenza delle condizioni nei campi di battaglia, dei sentimenti, dei valori dei giovani tainesi di allora.
La guerra in Libia
Il 21 settembre 1911 lo Stato Italiano dichiarò guerra alla Turchia ed ebbe inizio l’avventura libica. Nel 1911 l’Italia era una nazione da soli cinquantanni ed aveva l’ambizione di raggiungere in progresso e potenza le altre nazioni europee, emulandone anche l’espansione coloniale. La Libia e l’isola di Rodi che gli italiani occuparono facevano parte dell’Impero Turco in disfacimento.
Il primo tainese a partire con l’esercito per la Libia fu Pietro Del Torchio della classe 1888, successivamente furono richiamati alcuni giovani della classe 1889, poi altri nati nel 1890 e 1891, come Marco Mira fu Pietro, Emilio Tonella di Virgilio e il caporale Giuseppe Ghiringhelli di Marco. In tutto furono una ventina i tainesi che parteciparono all’impresa coloniale.
Emilio Berrini di Angelo, classe 1889, partì da casa il 9 novembre 1911 e dopo un mese di addestramento a Napoli, fu inviato a Tobruk con il 34° reggimento di fanteria e prese parte a diversi combattimenti, tra cui quello dell’11 marzo che durò “dalla mattina alla sera e costò ai nostri la perdita di parecchi uomini di truppa e di alcuni ufficiali.” (“Il Resegone”,10 agosto 1912). Lo stesso giornale in data 1° giugno informa dell’occupazione di Rodi e conseguente battaglia di Psithos nei giorni 15 e 16 maggio dove combatterono il bersagliere Domenico Bielli di Gaetano ed Emilio Berrini. Quest’ultimo il successivo 27 luglio ritornò a casa “fiero di aver servito con onore la patria”.(“Il Resegone”,10 agosto 1912).
La fierezza e l’orgoglio di combattere per il proprio paese è infatti il sentimento che traspare dalle parole e dai commenti dei soldati tainesi e anche la popolazione si compiaceva delle vittorie dei suoi soldati. L’artigliere Fortunato Mira di Federico che combattè a Zanzur, a Misurata e a Tripoli, nelle lettere inviate ai genitori il 24 giugno e il 3 luglio 1912 dice: “….il nemico si avanzava molto per venire a scacciarci dalle trincee, ma noialtri italiani siamo più forti e valorosi dei turco-arabi” e ancora “….Ieri mattina il nemico venne a trovarmi, ma l’Italia non temerà mai: con 10 o 15 colpi di cannone li ho fatti fuggire tutti, si sono ritirati ancora alla loro città e nelle loro trincee.”
Nonostante la superiorità dei soldati italiani fu una guerra impegnativa che costò molto in termini di uomini e di mezzi. Sempre il Mira nella sua lettera del 13 luglio racconta: “Cari genitori, qui a Misurata il giorno 8 c’è stato un grosso combattimento per l’avanzata che abbiamo fatto. Abbiamo incominciato alla mattina alle 3 il fuoco che terminò alla sera. In quella giornata era come la fine del mondo: ci fu una trentina dei nostri soldati morti, più due o tre ufficiali di fanteria…..abbiamo passato un gran brutto momento. Le pallottole cascavano a destra e a sinistra: non si sapeva più da che parte ripararsi, ma quella giornata è stata una grande vittoria per noi italiani, perchè l’avanzata era già destinata da farsi in quattro giorni, ma noialtri in una giornata l’abbiamo fatta…..Arrivati alla città di Misurata trovammo che c’erano solo gli ebrei che si arrendevano: arrivati vicino al palazzo del governatore turco vedemmo che là c’era tutto incendiato. I nostri bravi ascari e gli alpini sono entrati a spegnere il fuoco…..fecero ricognizione dappertutto il palazzo e misero la bandiera italiana tricolore alle 3,45. Tutti vedendo la bandiera sventolare gridarono: Viva l’Italia! Viva il Re!.” Il grido di Viva l’Italia, viva il Re risuonava spesso anche a Taino in quel periodo, particolarmente quando un reduce tornava a casa si manifestava la gioia popolare “Domenica 21 fu di ritorno dalla Libia il soldato Pietro Del Torchio, accolto festosamente dalla popolazione, la quale scoppiò in applausi di evviva Tripoli, i soldati e il Re. Tutti facevano a gara per portarsi vicino a lui per interrogarlo. Ora si attende anche il soldato Stefano Berrini di Carlo”.(“Il Resegone”, 27 aprile 1912).
Sempre dalle lettere dei soldati apprendiamo che le condizioni climatiche in Libia erano proibitive. Il caporal maggiore Francesco Bielli di Cheglio, tra i primi a sbarcare sulle coste africane insieme ad Alfredo Bielli di Giuseppe, scrisse al fratello Luigi in data 14 aprile 1912: “Ieri fu una delle più brutte giornate che io abbia passate in Tripolitania. La temperatura era di 41 gradi. Il sole era cocentissimo e nel deserto non è possibile pensare all’ombra. Sotto la tenda non si poteva stare per il caldo e per la polvere. La polvere era tanto fitta che non ci si vedeva più in là di una quindicina di metri…….Ti lascio immaginare in quale condizioni mi trovai. La polvere è peggiore della pioggia: essa viene in faccia e fa male specialmente agli occhi e passando per i panni ricopre tutto quanto il corpo. A mezzanotte di ieri non si poteva ancora dormire per il gran caldo.” Anche l’artigliere Fortunato Mira si lamenta del “gran caldo e delle febbri malariche”. Carlo Giudici, classe 1891, che partecipò alla spedizione in Libia in qualità di panettiere, si ammalò di peste e ricoverato in un lazzaretto nel deserto insieme a molti altri soldati, fu l’unico italiano che riuscì a sopravvivere. Altri furono feriti o contrassero malattie come Francesco Bielli di Virgilio che fu ricoverato nell’ospedale di Tripoli “proprio nel giorno in cui fu firmata la pace di Losanna” (“Il Resegone,28 dicembre 1912). Non tutti i tainesi fecero ritorno a casa al termine della guerra italo-turca. “I combattenti della classe 1891 continuarono il servizio militare nella nuova terra italiana: a Misurata Emilio Tonella di Virgilio e Giuseppe Ghiringhelli di Marco, a Tripoli Vittorio Veltidi degli Esposti”. (“Il Resegone”,8 febbraio 1913). Nessun giovane tainese cadde in questa guerra, ma il paese pagò l’occupazione della Libia con la vita di un suo figlio: il caporal maggiore Carlo Berrini di Carlo (Santina) arruolato nell’11° Bersaglieri “morì il 1° maggio 1915 in seguito ad una gravissima ferita all’addome riportata nel combattimento sostenuto il 29 aprile 1915 contro i ribelli nel pianoro di Cardisi (Libia) e sepolto a Scheidina”.(“Il Resegone”,24 luglio 1915).
La grande guerra
Fiumi di parole e tantissimi libri sono stati scritti su questa guerra. Non intendiamo qui raccontarla, solo riportare alcune esperienze vissute dai tainesi, cercando di capire la mentalità di allora, senza dare in prestito al passato le nostre idee di oggi. Certo, si tratta di avvenimenti per noi ormai lontani nel tempo che è diventato problematico includere nella nostra memoria collettiva, soprattutto dopo che il fascismo, con grande impiego di retorica, collocò nella guerra e nella vittoria il proprio atto di nascita. Fu comunque un grande evento che lasciò un segno indelebile in coloro che lo vissero perchè in questa guerra non vi fu famiglia tainese che non avesse avuto almeno un congiunto al fronte e che non avesse dovuto piangere i suoi morti, i suoi feriti, i suoi mutilati, tutti appartenenti alle classi più giovani.
Centoquattro furono i tainesi arruolati, alcuni partirono volontari. Il soldato più anziano fu Giuseppe Binda di Stefano della classe 1882, i più giovani erano nati nel 1899, tra cui Giuseppe Movalli di Giovanni che perì in un ospedale militare a seguito di una grave malattia contratta al fronte e Battista Jermoli di Domenico che si arruolò a 18 anni volontario. Volontari partirono anche il fratello maggiore di Battista, Stefano della classe 1897, Luigi Gianelli di Leonardo e Gianpaolo Berrini di Carlo. Questi ultimi due giovani caddero entrambi nel 1917.
Nei lunghi quattro anni di guerra il dolore e le sofferenze patite dai combattenti e i lutti delle famiglie furono grandissimi. Trenta giovani non fecero più ritorno a casa, molti furono i feriti: il primo dei soldati tainesi ad essere colpito fu il caporale di fanteria Enrico Baira di Andrea della leva 1895, che poi, rimessosi dalla ferita ritornò al suo reggimento e prese parte a diversi combattimenti, nell’ultimo dei quali fu colpito a morte (“Il Resegone”,14 ottobre 1916).
I soldati tainesi si fecero onore sui campi di battaglia e diversi si guadagnarono medaglie al valore, come il sottotenente Giuseppe Pasquale Gallanti, morto sul Carso nel 1916, che fu insignito della medaglia d’argento al valor militare.(“Il Resegone”,29 settembre 1917). Decorati con medaglia d’argento furono anche il tenente Carlo Cattaneo di Pietro per il fatto d’arme avvenuto il 15 luglio 1918 sul monte Solarolo (“Il Resegone”,20 dicembre 1919) e il tenente di fanteria Leone Del Torchio che si meritò la medaglia con la seguente motivazione: “Reduce da poche ore dall’ospedale dove era rimasto degente per varie ferite riportate in altra azione, si lanciava in un nuovo combattimento con tale slancio e così aperto disprezzo del pericolo da destare l’ammirazione di tutti i suoi dipendenti. Contribuiva così in misura principale a rendere vani gli sforzi tre volte ripetuti del nemico d’impossessarsi delle nostre posizioni. Due volte ferito nel corso del combattimento, veniva trasportato al posto di medicazione Carso quota 126-4 settembre 1917″(“Il Resegone”,22 dicembre 1917).
Anche il tenente Gianpaolo Berrini fu insignito della medaglia d’argento al valor militare e così scrisse alla madre: “…credo pure tu, mamma cara, contenta, come credo papà soddisfatto. Io non faccio false modestie: sono felice, felice anche perchè credo che al Battaglione Cadore ho fatto due azioni importanti e due volte sono stato proposto, felice perchè la mia coscienza di Alpino d’Italia mi dice che questa medaglia non è usurpata”.
L’amore per il proprio paese mosse anche gli emigranti a rimpatriare come il soldato Giovanni Giovanella di Pippo della classe 1895 che “per compiere il proprio dovere era ritornato dall’Argentina, dove da vari anni era residente co’suoi zii” (“Il Resegone”,21 ottobre 1916).
La maggioranza dei giovani di allora partì per il fronte con l’entusiasmo di chi credeva in una grande missione. Giovanni Berrini (Stevenin del Bolco) nella sua lettera del 23 agosto 1915 al parroco, Don Martino Vignati, dice: “…in trincea ci sembrava anche di essere più capaci di fare il nostro dovere da veri cittadini e soldati italiani, sempre col pensiero che siamo figli di eroi e vogliamo anche essere padri che morendo un giorno potranno i figli nostri dire: siamo noi pure figli di eroi. Noi qui si spera di giorno in giorno di assistere a tragica scena, cioè ad una avanzata: nessuno si perde di coraggio, col pensiero rivolto a Dio che ci darà la forza di andare avanti per la grandezza della patria nostra.”
E alla “vittoria per la Patria” fanno spesso riferimento le parole dei soldati. Carlo Bielli della Ca’Nova scrive dal Trentino: “con l’aiuto di Dio, seguiti colla mente e col cuore dalla Nazione, noi serenamente sopporteremo sacrifici e fatiche fino alla completa nostra vittoria, Viva l’Italia”. (“Il Resegone”,9 ottobre 1915).
Gianpaolo Berrini nella lettera alla famiglia del 1°giugno 1916 dice:”….Ebbene vi dirò che se quando partii da Milano ero un entusiasta, pur tuttavia l’ignoranza assoluta di cosa sia la guerra, la partenza per luoghi ove io mi immaginavo non vi fosse che morte, mi dava un certo senso di vuoto, di sgomento, e per sopraffare questi sentimenti occorse la mia buona volontà, sostenuta dalla giustezza della causa per la quale sarei forse anche morto; ora invece, dopo un anno di guerra, del quale la massima parte l’ho passata al fronte, debbo confessare che sono più entusiasta di prima, che i miei sentimenti di volontario sono aumentati e che sempre desidero e desidererò incontrarmi con gli odiati nemici”.
Gli “odiati nemici” erano gli austriaci che occupavano terre italiane. I giovani di allora erano stati allevati nel culto risorgimentale della nazione e il loro amore per la patria era un sentimento sincero e la guerra era vissuta come una necessità per rigenerare l’Italia, paese da secoli povero e debole, e portarlo al livello delle grandi nazioni europee. “La grande proletaria si è mossa” era la formula, così sintetizzata nelle parole del poeta Giovanni Pascoli, che esprimeva le aspirazioni del popolo italiano.
L’artigliere degli Alpini Luigi Gianelli nella lettera alla sorella del 22 maggio 1917 manifesta il suo orgoglio di soldato e il suo desiderio di combattere: “….noi qui spariamo assai spesso e ti assicuro che facciamo dei tiri “strepitosi” che danno molta soddisfazione. Quando si vede un colpo andar proprio benissimo sul bersaglio da colpire immagini la gioia e la soddisfazione che si prova. L’altro giorno con un colpo abbiamo infilato proprio una buca di una caverna austriaca ed abbiamo poi saputo (intercettando un fonogramma nemico) di aver accoppato un ufficiale e quattro soldati austriaci…Poveri diavoli! Mi dispiace per loro ma non troppo a dire il vero….In verità poi ti dirò che preferirei quasi essere sull’Isonzo in questi giorni d’azione…Là si combatte e ben bene ora…e se fossi là chissà quante centinaia di colpi dovrei tirare. Penso proprio con invidia ai valorosi compagni che stanno là ora” ed era così fiero di essere al fronte, da rifiutare qualsiasi privilegio o agevolazione. Infatti scrive il 24 giugno 1917 alla madre, che era, come tutte le madri, in angoscia per il figlio e ne temeva la perdita “…Mi chiedevi nella tua ultima lettera se conosco un certo maggiore Umberto Capoletti….lo conosco altro che, è nientemeno che il mio comandante di gruppo. Chi vi ha detto che lo conosce? Mi raccomando di non fare qualche sciocchezza, di farmi magari raccomandare: prima di tutto sapete che queste cose non mi piacciono affatto, anzi mi sono odiose; in secondo luogo non c’è n’è nemmeno bisogno.”
Nonostante la convinzione profonda di combattere per un ideale, per la patria, la guerra fu per Luigi Gianelli, come per tutti i soldati, una esperienza durissima e sconvolgente. Nella lettera alla famiglia del 10 aprile 1917 descrive la condizione sua e dei suoi compagni con queste parole: “…Ora non ho tempo di scrivervi tanto a lungo, perchè abbiamo da lavorare moltissimo in questi giorni, giacchè dobbiamo cambiare posizione, qui stavamo benissimo ed ora andremo a stare un po’ peggio. Ma pazienza! Qui avevamo una buona baracca abbastanza comoda, ed ora andremo in caverne che dobbiamo ancora quasi completamente costruire ….Io vi ripeto sto sempre molto bene di salute solo che naturalmente ho sempre le gambe ben stanche…si fanno di quelle passeggiatine qui in montagna in quei camminamenti e sentieri ripidissimi e faticosissimi di neve che fan tirar fuori un braccio di lingua. Si fanno certi capitomboli nella neve. Robe da chiodi. La guerra di quassù è veramente inimmaginabile, bisogna vederla e provarla. E’ un complesso di lavori, di servizi, di situazioni, di prodezze e di fatiche che hanno dell’inverosimile, dell’incredibile.”
Dobbiamo supporre però che non tutti i tainesi partecipassero con entusiasmo alla guerra. Si sa, dai ricordi delle famiglie, che alcuni tentarono, una volta a casa in licenza, di non tornare al fronte, fingendosi anche pazzi o non curando le ferite. Soprattutto per i padri di famiglia era assai doloroso lasciare mogli e figli piccoli ad affrontare da soli le difficoltà e le fatiche del lavoro dei campi. Per tutti vi era poi la paura della sofferenza e della morte a cui andavano incontro.
Possiamo comunque affermare, sulla base della documentazione storica esistente, che gli ideali del mito nazionale risorgimentale – la patria, la libertà, la grandezza della nuova Italia -, in forme sia pure elementarmente emotive, furono veramente percepiti e vissuti con partecipazione da gran parte della popolazione. Nell’ultima sua lettera del 23 agosto 1917, due giorni prima di essere colpito a morte, Gianpaolo Berrini scrisse: “Avete visto che bei bollettini vengono dall’Isonzo? Noi siamo soddisfatti ed orgogliosi.”
Nell’esperienza della prima guerra mondiale, i giovani tainesi, forse per la prima volta, si sentirono cittadini di una patria comune, anche se fu un sentimento di breve durata. I soldati diedero buona prova di sè, specie nei momenti più difficili, come dopo la disfatta di Caporetto, e anche coloro che maledirono la guerra per anni in trincea, una volta tornati a casa, rielaborarono nel ricordo e nel racconto delle imprese personali quell’esperienza terribile che rappresentò, per tutti i sopravvissuti, la grande esperienza della loro vita, la prima grande esperienza di massa vissuta collettivamente e con orgoglio conservarono le proprie fotografie in divisa militare e quelle dei commilitoni scattate al fronte a testimonianza della loro partecipazione a questo grande evento.
Si ringrazia per il materiale fotografico e documentario gentilmente fornito:
Famiglia Merla, famiglia Giudici e Luca Brovelli, Angelica Jermoli, Liliana Tonella, famiglia Fiorino Ponti, Amalia Berrini, Renzo Giovanella, Bruna Mira d’Ercole, famiglia Talamini, Giandomenico Terzoli, Cesarina Ghiringhelli, famiglia Gianelli, Ernanna Mira d’Ercole, famiglia Berrini-Tresca, Lina Movalli, Anna Tonella, famiglia Villa.